Nella giornata di domenica, 15 aprile, due pattuglie di 6 uomini ciascuna, comandata dal sottoscritto e da Gino Cerri, si dirigevano verso la cima del monte Pillerone, per studiare le possibilità di un nostro attacco di sorpresa, come eravamo stati abituati a compiere tante volte durante i duri mesi della lotta partigiana. Arrivammo a pochi metri dalla vetta strisciando sul terreno boschivo che si estende dalla parte di Monticello; studiammo con ogni cura le posizioni del nemico e i sentieri più facili per salirvi; non vedemmo nessuno degli avversari, solo due militari di guardia alle postazioni, perché tutti gli altri stavano riposando in luogo defilato alla vista.
Ci ritirammo soltanto all’imbrunire per non farci scoprire e arrivammo a Monticello alle ore 22. Qui trovammo il comandante Muro con 6 dei suoi uomini, che ospitammo a dormire nella paglia con noi. Dopo aver cenato tutti andarono a prendere le loro postazioni, stanchi della missione compiuta. Io, Cerri, Tom e Muro rimanemmo invece a discutere dell’attacco al monte Pillerone, che si doveva effettuare nella notte del giorno 17; ad esso avrebbe preso parte il nostro stesso comandante di brigata coi russi del distaccamento di Vaccarezza, comandato da Ambrosio.
Quando, dopo esserci salutati, entrai nella mia postazione, trovai tutti gli uomini addormentati, per cui feci loro una reprimenda un poco burrascosa. Decisi io stesso di fare la guardia alla finestra, perchè presagivo il pericolo che ci sovrastava. Dopo 20 minuti venne da me la sentinella di turno, alpino Soardi, per dirmi — e lo giurò dinanzi al Crocefisso appeso alla parete della scuola — che appena si fosse sentito stanco stanco avrebbe provveduto a svegliarmi per avere il cambio. Mi coricai alla 1:30, stanco delle camminate fatte durante la giornata.
Alle 3:40 una voce sommessa e trepidante mi svegliò: «Barba, Barba… Ci sono», era Soardi che parlava sottovoce. A me sembrava di sognare e stentai ad aprire gli occhi, ma Soardi mi prese per un braccio e a forza mi scosse. Mi appressai allora alla finestra: nella tenue oscurità della notte che ormai volgeva al suo termine potei scorgere una lunga colonna di armati su due file, a 5 metri una dall’altra. Costeggiavano la costa che da Pigazzano-Buffalora porta a monte Bissago. Parte di essi stava già piazzando le mitragliatrici pesanti sulla collinetta che domina le nostre finestre e tutto il castello dal lato nord. Alcune pattuglie di arditi avevano già compiuto il giro attorno al castello, senza incontrare nessuno di noi, per cui sottovoce dicevano: «Li prendiamo tutti vivi, perché stanno dormendo». Intanto un gruppo di 10 ufficiali, che sostavano a circa 10 metri dalla nostra finestra, davano gli ordini ai loro uomini per far irruzione all’interno del castello, attraverso il portone senza battenti che si trova dal lato del campanile.
Erano le 3:55 quando ci facemmo il segno della croce e Soardi, rivolto al Crocefisso ebbe a dire una preghiera per tutti: «Dio, proteggi i peccatori!». Subito dopo lanciai dalla finestra la prima bomba anticarro, che scoppiò a brevissima distanza dei nemici che stavano sotto. Quasi contemporaneamente Soardi imbracciava il suo mitragliatore M.G. 42 ed apriva il fuoco. Quel tonfo e quegli spari diedero l’allarme generale a tutti i difensori del castello; cominciarono a sentirsi le grida dei feriti e i lamenti dei moribondi.
Passato qualche attimo di sbandamento, i nemici attaccarono, sparando con tutte le armi, compresi i panzer-faust, che avevano portati sulla linea per far breccia. La quantità dei proiettili che investivano la nostra finestra ed entravano nei locali era una cosa indescrivibile. Dilaniavano i muri verso l’esterno, tranciavano il ferro delle inferriate e molti penetravano nell’interno, forando e scrostando le pareti, mentre nugoli di polvere e di calcinaccio si abbattevano sulle schiene curve dei difensori e rodevano loro i polmoni. Fummo perciò costretti a ripararci nella tromba della scaletta a chiocciola, che sta a fianco dell’aula. Qui cominciammo a pulire le armi impolverate e a prepararci per la difesa ad oltranza; alla nostra finestra più non era tuttavia possibile avvicinarsi, perché tutte le armi battevano il luogo dal quale era partito il nostro primo colpo d’allarme. In tal modo le altre nostre postazioni potevano entrare in azione ed avevano via libera per decimare il nemico. Eravamo però isolati: ogni gruppo combatteva separatamente la sua battaglia, ma con ordine e sincronismo, come se una mente superiore dirigesse la scena. Un grande valore morale di quella giornata sta quindi nel fatto che i patrioti, pur combattendo separati, non abbiano permesso da nessuna parte l’entrata del nemico. Sarebbe bastato un atto di vigliaccheria da parte di un mitragliere e l’edificio poteva essere invaso attraverso una delle numerose sue entrate. Ma i mitraglieri della VII brigata erano esemplari per servizio e fedeltà al dovere, come si era dimostrato anche in altre occasioni. Inoltre Tom si mostrò un tiratore scelto, Piersanti fu ottimo come sempre, Soardi, Ramponi, Pedralli, Zanelletti anch’essi e così tutti gli altri. Il «Balilla» tenne su il morale gridando e scherzando.
Con le pistole a razzo i nemici chiedevano intanto l’intervento dei mortai dal monte Pillerone, ma questi non entrarono subito in azione per timore di colpire i compagni che assediavano il castello. Le pallottole incendiarie degli avversari appiccarono il fuoco ai fienili e ai porticati pieni di paglia, per cui si ebbe un incendio che investì il lato nord-est e quello nord-ovest del castello, minacciando le stalle, dove i bovini muggivano dal terrore, e minacciando i locali stessi tenuti dai difensori.
Alle 4:30 una voce del comandante nemico, resa tuonante attraverso un megafono, urlava per noi l’intimazione di resa: «Arrendetevi! Siete circondati da tutte le parti da 500 uomini. Non avete più vie di scampo. Non vi faremo niente, ma vi diamo 10 minuti di tempo per decidervi. In caso contrario non vi sarà più misericordia e vi ammazzeremo tutti quanti». Non aveva però ancora finito di urlare che io gli risposi: «Gli alpini della VII brigata non si arrendono mai. Morte ai fascisti e ai tedeschi. Viva la libertà!». Cominciammo subito dopo a cantare l’inno partigiano «Urla il vento, soffia la bufera…» ed altri inni, ai quali si unì quello degli alpini: era la squadra di Pedralli e Ramponi che cercava di mettersi in comunicazione con noi. Poi rispose, sempre attraverso il canto, la squadra di Zanelletti, il quale subito gridò: «Barba, Barba, siamo tutti vivi. Morte ai fascisti!». In realtà nella prima mezz’ora di combattimento 4 dei nostri alpini erano rimasti feriti e fra questi Bernava per ben due volte, in modo grave. Dopo una sommaria medicazione tutti ritornarono però volontariamente ai loro posti di combattimento e chi non era più in grado di sparare, aiutava i compagni nel passare le munizioni e nel ricaricare le armi.
Sette ore di combattimento, uno contro più di venti, provò ancora una volta di che tempra fossero gli alpini e i loro comandanti. Le camere piene di fumo e di scoppi, i lamenti dei feriti, i cupi boati delle granate che ogni tanto venivano a coprire il ticchettio rapido delle mitraglie, non valsero a smuovere la ferrea volontà dei difensori, decisi di resistere fino alla morte. I nemici attoniti d’incontrare una simile e organizzata resistenza, cominciarono dopo qualche ora di combattimento a dar segni di stanchezza e di sbandamento.
Alle ore 7:30 la nebbia e il fumo dell’incendio cominciarono a dileguarsi e noi tutti pronti per cominciare a colpire i mitraglieri avversari che stavano sdraiati fra le erbe dei campi che circondano il castello dal lato nord: dove si notava un elmetto si cercava di mirare per mettere fuori combattimento gli inservienti dell’arma. Dopo aver visto colpiti con tiro sicuro alcuni dei loro, i nemici furono costretti a ripiegare, lasciando libera la collinetta che domina le nostre finestre. Così potemmo avere un po’ di respiro e dare man forte alle squadre di Pedralli e di Zanelletti.
Alle ore 8 Gino Cerri abbatteva il muro che dal sottoscala confina con la cucina: potemmo in tal modo metterci in comunicazione anche con lui. Io intanto scendevo al piano terra per vedere come si presentava la situazione. Trovai Muro, che si congratulò per il mio attacco.
A questo punto, verso Moglio (ndr. Moglia?), dalla parte di Monteventano, scorgemmo degli armati e vedemmo muoversi tra gli alberi, ma a causa del fumo e della nebbia, non potemmo subito capire se fossero dei nostri oppure repubblicani. Per averne conferma lanciai allora tre razzi con la pistola «Very»: bianco, rosso, verde, i colori della bandiera, segnale convenuto in precedenza col «Valoroso». Subito questi con 5 dei suoi uomini si avvicinò al castello dal lato sud e s’incontrò con Gino Cerri e con Muro. Questo congiungimento avveniva alle ore 8:50 circa.
Il «Valoroso» salì subito nella scuola per stringermi la mano e per baciarmi, mentre andava gridando: «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!». Gli feci però notare che nel vallone, che da Moglia porta alla fontana e alla strada che conduce all’osteria, c’erano ancora molti nemici, circa 300, rinchiusi come in una morsa. Gli dissi perciò di non voler avanzare troppo nel campo che sale alla collinetta che domina a nord il castello. Egli mi strinse ancora la mano in segno di saluto e di augurio, mi disse di non abbandonare la mia postazione, dopo di che, insieme a Gino Cerri, partì per l’assalto decisivo.
Intanto, alle 9:25 una granata avversaria colpiva il solaio della postazione di Zanelletti, e dopo aver forato il tetto penetrava all’interno scoppiando. Tutti rimasero feriti, per fortuna non in modo grave, e furono costretti ad abbandonare il loro posto di combattimento. Questo accadeva proprio nel momento più cruciale della battaglia, quando i nemici, correndo allo scoperto, si ritiravano lungo la strada che conduce all’osteria. Così rimanemmo soltanto io e Pedralli a fare il tiro a segno. Quando ebbi ultimato le munizioni della mitraglia, imbracciai il mitra e continuai il fuoco con quello. Anche Tom, Scarezzato e gli altri dalle loro postazioni falciavano gli avversari in ritirata.
Nel frattempo il «Valoroso» e Gino Cerri, alla testa dei loro uomini, cominciavano l’assalto con panzer-faust tolti al nemico e con bombe anticarro. I repubblicani, sconvolti e terrorizzati dalla micidiale azione dei partigiani, ridotti all’estremo, gettarono le armi e si diedero ad una fuga disordinata.
Alle 9:40, visto lo sbandamento provocato nelle file nemiche, il «Valoroso» insisteva nella sua azione travolgente ed avanzava ancor più nel vallone che porta alla collinetta, allo scopo di farsi notare da noi, che lo proteggevamo col nostro tiro. Infatti dal basso ebbe a gridarmi: «Barba, Barba, non sparare che siamo noi». Gli risposi allora: «Va’ via, che ti fai ammazzare. Non vedi che c’è pieno di loro», allarmato dalla presenza dei numerosi nemici che ancora potevo scorgere dall’alto. In quella una raffica di fucile mitragliatore lo investiva, colpendolo al ventre. Cadde senza un lamento. Fu subito soccorso dai suoi uomini e trasportato nelle vicine case di Moglia. Malgrado le cure prestategli spirava poco dopo tra lo strazio dei suoi. Le sue ultime parole furono: «Siate bravi patrioti, curate i feriti, non maltrattate i prigionieri e perdonate agli italiani che non la pensano come noi… Viva l’Italia! Viva i partigiani!».
Io lasciai la mia postazione alle 10:20 e insieme a Soardi, Stefanini, Mazzari e Cerri I°, uscimmo nel vallone sottostante per soccorrere i feriti, dato che tutti gli uomini del «Valoroso» si erano ritirati per scortare il loro comandante. Appena all’inizio del vallone trovammo Gino Cerri morto, con le mani alla fronte e la faccia rivolta a terra. Lo riconoscemmo subito dal maglione giallo che indossava. Una pallottola l’aveva colpito al cuore; morì sull’istante. Accanto a lui stava il suo mitra e tre nemici erano distesi cadaveri ai suoi piedi. Cominciammo il rastrellamento dei prigionieri: eravamo soltanto in cinque, perché tutti gli altri partigiani si erano ritirati per ordine di Muro.
Nel vallone catturammo 25 prigionieri e fra questi vi erano 12 feriti gravi che non potevano camminare. Il nemico lasciò sul terreno 56 morti, 2 mitragliatrici pesanti, 12 fucili mitragliatori, 102 fra mitra e moschetti, panzer-faust, munizioni di ogni genere, giubbe, elmetti, pistole ed altro materiale. Le perdite compresi i morti, i feriti e gli assenti, furono di 224 unità.
La battaglia cessò alle ore 10:50.
A mezzogiorno più di 200 partigiani arrivarono da tutte le parti a commentare il fatto. Con me rimase solo Stefanini, Cerri I°, Albasi e Mazzari.
Alle 14 una famiglia, che abita vicino al castello, ci invitò a mangiare dei polli. Erano una parte dei 30 volatili, uccisi dai nemici per festeggiare la loro vittoria in «barba ai ribelli». Invece cambiarono bocca!
Alle 16 tornammo al castello, dove mi raggiunse l’oste di Monticello per dirmi che c’era a casa sua un prete che cercava il comandante dei partigiani. All’osteria trovammo il parroco di Pigazzano, che si disse venuto per parte dei nemici, per chiedere una tregua di 48 ore a partire dalle ore 16 del lunedì alle 16 del mercoledì 18 aprile. In nome del mio comandante di brigata accordai la tregua e firmai per lui il documento relativo, che fu stilato in triplice copia.
Il giorno 17 vennero consegnate 56 salme; fra le quali 10 di marescialli, 6 di sottotenenti, 2 di tenenti, 5 di sergenti e una di capitano delle brigate nere. Quest’ultimo, accortosi che 5 dei suoi uomini stavano per arrendersi a noi, li falciò con raffiche del suo mitra. Allora Pedralli, disgustato per quest’atto infame, lo uccise con una raffica della sua mitraglia, proprio sulla porta dell’osteria.
Nell’infermeria improvvisata dal nemico trovammo 12 braccia staccate dal tronco e lasciate abbandonate. L’oste mi disse che poco dopo il primo scoppio erano cominciati ad affluire i feriti. Soggiunse che più di 70 furono medicati durante il corso della battaglia, che due medici militari prestarono ininterrottamente la loro opera finché rimasero senza materiale di medicazione, che molti feriti erano poi morti sui carri, mentre venivano trasportati verso Rivergaro.
Le perdite partigiane furono di 5 uomini: Gino Cerri, il «Valoroso», «Cicogna» (Ciceri Carlo) della IX brigata, Passerini Aldo e «Nestore» della III brigata. I nostri feriti furono 7: Bernava, Piersanti, Tom, Morselli, Soardi, Zanelletti e Lodrini.
Seppi da Soardi che alcuni prigionieri nemici credendo di farsi benvolere da noi si erano messi sul bavero delle stelle rosse e che Muro gridò loro di vergognarsi».