Wikiradio – La Battaglia di Monticello raccontata da Mirco Dondi

Molto spesso una visione troppo lineare e manualistica della storia ci porta a vedere gli ultimi combattimenti delle forze Partigiane contro nazisti e fascisti come un elemento scontato, quasi che ci fosse una forza di inerzia a condurli, non è così; le giornate di aprile che si approssimano alla Liberazione sono spesso tra le più sanguinose e loro esito non si può dare per scontato.

Ancora oggi, a Piacenza, la battaglia di Monticello di Gazzola è ricordata dalle istituzioni e celebrata dal sindaco.

Perché allora si riconosce l’importanza della battaglia di Monticello di Gazzola avvenuta tra il 15 e il 16 aprile 1945?
È decisiva per la liberazione della città? Non propriamente, ma questa battaglia ha qualcosa che va oltre il valore strategico della Vittoria militare.

È senz’altro la più grande battaglia delle formazioni Partigiane nel piacentino, certo, nel novembre del 1944 c’era stato il terribile e consistente rastrellamento operato dai nazifascisti che hanno dovuto mobilitare 20.000 uomini per debellare le formazioni piacentine.

I Partigiani, in quel periodo, è venuto un proclama di Alexander dicendo di sbandarsi: “ognuno ritorni nelle proprie case, ognuno cerchi di salvarsi come può, di non combattere, di non fare più niente” perché di aspettare la Primavera che sarebbe venuto poi…

Dopo due o tre giorni che siamo lì vini il colonnello Cansi, il colonnello Cansi dice:bisogna mettersi in civile, bisogna sparire fino a primavera” testuale l’ho sentito col mio, perché avevo il mitra e me lo sono messo qua. Noi:piuttosto mi sparo!” una cosa vera e sacrosanta, e da lì ci siamo sciolti.

Noi speravamo invece che gli americani giungessero prima, invece si son fermati alla Linea Gotica e per quello i tedeschi hanno avuto anche le forze disponibili per mandare un rastrellamento che non si era mai verificato prima.

Fu un fatto Nazionale, perché fu il rastrellamento più grande avvenuto in tutta l’Italia occupata. Si occupò di questa operazione la 162° Turkestan composta da soldati uzbeki/ucraini prigionieri di guerra catturati sul fronte russo che avevano accettato di combattere con i tedeschi.

Erano la razza più brutta che ci possa essere! Han violentato delle donne, li han fatti sedere sulle stufe calde, una roba incredibile han fatto delle cose che… non avevano pietà quelle quella gente lì, non ne avevano…

Moltissimi furono anche gli stupri ai danni delle donne, tanto è vero che la Repubblica Sociale si affrettò a varare una legge che consentiva l’aborto.

Qua ad aprile il campo è ristretto. Il castello di Monticello è situato in una posizione strategica sul crinale che divide la Val Trebbia dalla piccola Val luretta nel comune di Gazzola a 540 metri d’altezza.

La battaglia di Monticello ci illumina sulle strategie militari dei due contendenti. Da una parte la seconda compagnia della 7ª Brigata appartenente alla divisione Piacenza comandata da Fausto Cossu, noto comandante partigiano, e a comandare quella compagnia partigiana distaccata a Monticello c’è Cesare Annoni, detto Barba II. Il gruppo è composto da Alpini che hanno disertato dalla divisione Monterosa della RSI e da ex prigionieri russi.

Il castello di Monticello di Gazzola prima di venire occupato era adibito a scuola e, i Partigiani, lo occupano il 5 aprile 1945. È attorno a questa costruzione che si svolge la battaglia.

Visto con uno sguardo asettico potremmo dire che i Partigiani in previsione della discesa in pianura cominciano ad occupare alcuni avamposti, al di là delle zone da loro controllate. Ciò è vero solo in parte dal momento che il comando partigiano della divisione Piacenza da ordine agli uomini della settima Brigata di ritirarsi da quella posizione. Anche qui è interessante osservare un tratto della nuova esperienza esistenziale che si è vista soprattutto nei primi tempi fino alla primavera del ’44, dove gli ordini potevano essere messi in discussione fra gli uomini e passare al vaglio del voto. Certo assolutamente impensabile in un esercito, ma qualche episodio di questo tipo si ritrova in piccoli distaccamenti anche nella fase finale dei combattimenti. Quindi gli uomini della 7ª Brigata mettono al voto l’ordine ricevuto dal comando di divisione, di ritirarsi, e lo respingono. Li anima l’incoscienza, la volontà di combattere, e una motivazione straordinaria che è una sorta di contrappeso al corporativismo mostrato alle volte dalle Brigate di fronte agli ordini superiori.

Era difficile difendere il presidio, non soltanto per l’esiguità degli uomini che lo occupavano, che sono 25, ma perché era posto in una zona di tiro dal Monte Pillerone occupato, l’8 aprile, dalle forze fasciste della Repubblica Sociale Italiana, decisamente più numerose e meglio armate con mortai, armi pesanti. Inoltre una delle accortezze del movimento di resistenza era sempre stata quella di non piazzare un insediamento partigiano troppo vicino alle postazioni nemiche. E l’occupazione del castello di Monticello segna un’eccezione. I Partigiani avevano pensato di attaccare la posizione degli uomini della RSI sul Monte Pillerone e per quanto difficile ne avevano previsto un attacco di sorpresa nella notte del 17 aprile, ma non ci sarà tempo per farlo dal momento che saranno i corpi della Repubblica Sociale Italiana ad attaccare per primi, la notte del 16 aprile.

Da questa possibile offensiva partigiana sul Pillerone ne avevano cominciato già a circolare voci fra i civili.
Forse è per questo che i fascisti avevano anticipato l’attacco. Strategicamente quella postazione partigiana nel castello di Monticello è di ingombro e gli uomini della RSI non possono non attaccarla il loro obiettivo è tenere libera quella che allora era la Statale 45 Piacenza-Genova già ripetutamente colpita dalle forze Partigiane.

Ogni Brigato oppure ogni distaccamento aveva una “Squadra volante”. La Squadra Volante erano i più audaci, i più coraggiosi, no? io non ero di quelli, no? e scendevano in pianura, assalivano non so: se c’è una colonna aspettavano l’ultimo camion per assalirlo, in modo di portare armi e viveri a noi.

Io avevo una divisa da Brigata Nera, mi mettevo sulla strada per fermare le macchine dei tedeschi perchè avevamo bisogno di armi e allora per prendere le armi bisognava fermarle e allora mi mettevo la fingevo di fare l’autostop quando si fermava la macchina io mi buttavo per terra e mi rotolavo nel canale. Perchè se fosse successo uno scontro io mi trovavo in mezzo, cosa dovevo fare? Sì, si facevano queste cose, ma insomma son cose da niente!

Certo è che gli uomini della 7ª Brigata sanno di rischiare e chiedono aiuto al comandante della 9ª Brigata della divisione Piacenza, Lino Vescovi, noto con il nome di battaglia Valoroso. Vescovi sarà il personaggio centrale di questa vicenda. Vescovi infatti si impegna a intervenire in difesa dei Partigiani appostati nel castello.

L’attacco delle Forze della RSI arriva presto, a condurlo sono due battaglioni di SS italiane, la Degli Oddi e la Debica, insieme alle Brigate Nere, Turchetti e Astorri, unitamente al corpo corazzato Leonessa. Nell’insieme si tratta di circa 450 uomini.

Il rapporto tra gli attaccanti, che sono appunto 450, e gli assediati, ai quali si aggiungono 9 uomini del Comandante Ludovico Muratori, è di 13 contro 1.

I preparativi quindi avvengono il 15 aprile ma è nella nottata del 16 aprile del 1945, precisamente alle 3:55, che scoppia la battaglia. I corpi di Salò riescono ad attaccare da tre punti diversi arrivando quasi a circondare il castello. Perdipiù si spara contro i Partigiani anche dalla altura di Monte Travo. Il razzo che avrebbe dovuto sparare la pattuglia partigiana per avvisare dell’imminente attacco nemico non fu visto da nessuno, ma probabilmente non fu mai sparato. La vera sorpresa fu però che gli attaccanti, quando dovettero constatare che anche i Partigiani possedevano, contrariamente al solito, armi efficaci, e ci rimasero! I Partigiani avevano un mitragliatore, avevano mitraglie, avevano bombe anticarro e, inoltre, i Partigiani erano ben piazzati a presidio di tutti i punti del Castello.

La risposta dei Partigiani fu quindi pronta e anche qua, contrariamente al solito, la dotazione di munizioni in possesso dei Partigiani andava bene al di là delle poche ore di fuoco. In considerazione di questo calcolo e sottovalutando i nemici, le truppe della RSI intorno alle 4:30, dopo più di mezz’ora dall’inizio dell’attacco, intimarono con un megafono alla resa ricevendo però rifiuto. “Gli alpini della settima non si arrendono!”. Un’altra fonte segnala che di fronte all’intimazione della resa i Partigiani si siano messi a cantare…

Certo gli attaccanti possedevano un’arma micidiale per questo tipo di scontro: i Panzerfaust. Si tratta di lanciagranate anticarro che con il loro getto incandescente perforavanno i carriarmati alleati; e quelle granate vennero lanciate contro il castello di Monticello. Un mortaio arrivò a sfondare il tetto del Castello ferendo i cinque Partigiani che si trovavano vicini. Una granata addirittura si va pericolosamente a collocare tra le feritoie del castello e se fosse esplosa sarebbe stato un disastro. Gli assediati respirano polvere. Qualcuno ha gli occhi accecati dalla polvere. I proiettili arrivano a sgretolare i muri interni, si fa anche fatica a respirare. Gli uomini della RSI provano a piegare i Partigiani accentuando il soffocamento da fumo, dando fuoco alle cascine attigue al castello. Il fieno in fiamme alza il fuoco e alza il fumo. I Partigiani all’interno cercano con le pietre cadute di creare una barriera che possa isolare alcuni ambienti dal fumo. È una situazione terribile. Inoltre per comunicare con i compagni Partigiani che stanno sotto, gli uomini del piano superiore aprono un varco sul soffitto. Lo scontro è intenso, traumatico, anche per chi attacca. Gli assalitori sono giocoforza più scoperti e subiscono perdite ingenti. I testimoni civili ricorderanno che molti uomini della RSI furono mandati al massacro da ordini insensati.

Loro hanno circondato il castello e si sono trovati davanti una resistenza, un fuoco che non si immaginavano.
Noi eravamo molto armati, pochi uomini ma con molte armi, molte munizioni..

Il primo intervento che loro hanno fatto è stato quello di mandare degli Ufficiali.
Quando loro si sono avvicinati per entrare nel castello, c’è una finestra sopra, da quella finestra sono state lanciate due bombe anticarro che li hanno disintegrati. Quindi il primo colpo lo hanno avuto con la perdita di questi ufficiali e questi sottufficiali.

Tra le truppe fasciste diversi uomini abbandonano l’attacco e cercano riparo lungo i Valloni. Le armi risuonano sino nei paesi contigui, preoccupando i civili che cercavano di informarsi su ciò che stava succedendo. Per quanto tra i Partigiani all’interno del Castello ci siano diversi feriti e il fumo sia opprimente, gli assediati dentro al castello non mollano. I Partigiani quando riescono cantano per farsi coraggio uno di loro, Emilio Stefanini detto Balilla che ha appena 18 anni, indirizza battute verso i suoi compagni per tenere alto il morale.

Il partigiano Lino Vescovi (“Valoroso”) è come tutte le persone nelle vicinanze avvertito dai frastuoni dello scontro, è vicino al castello, ma per raggiungere una posizione di combattimento e nuocere al nemico deve correre un alto rischio e affrontar lo scontro. Lui vuole arrivare al castello ma appunto deve superare tutto lo sbarramento delle Forze della Repubblica Sociale Italiana. Vescovi ha promesso il suo aiuto al comandante Cesare Annoni, Barba II, e al commissario “Gino” Cerri, che poi morirà nella battaglia. Vescovi mantiene fede all’impegno portando con sè solo Partigiani volontari. Alla fine sono poco più di una ventina, il rischio è altissimo. L’obiettivo di Vescovi è proprio quello di ricongiungersi con gli assediati, arrivare dentro al castello.

Sono circa le 7:30 del mattino, il fumo si è diradato e le batterie degli attaccanti non sparano più dal Monte Pillerone. Vescovi cerca l’aggancio ed è aiutato da un’altra piccola pattuglia partigiana che era sopravvenuta e che crea agli attaccanti della RSI il sospetto di essere a loro volta accerchiati. Cinque fascisti spaventati si arrendono a un contadino con una zappa in mano, l’avevano scambiato per partigiano. La luce del giorno permette a tutti di vedere l’altro numero di uomini rimasti a terra, i morti, feriti, le armi abbandonate; ma la battaglia non è finita.

Alle 8:50 Vescovi riesce a ricongiungersi con gli uomini rimasti nel castello e dal Monte Pillerone riprende il fuoco degli attaccanti. Una parte dei partigiani con Vescovi decide di uscire dal castello e cerca di attaccare gli uomini della RSI che sono appostati sulla collinetta. I Partigiani riescono anche a usare i Panzerfaust abbandonati dagli uomini della RSI. I fascisti fuggono, la battaglia è ormai vinta ma una raffica ferisce mortalmente Lino vescovi.

Eravamo là per discutere il da farsi e ce ne eravamo in 20 o 25. È arrivato il Valoroso da Montevenano mi ricordo: “Sa andiamo. Andiamo dentro, cosa stiamo qua a fare…” e ci ha raggrupato e quattro di noi l’abbiam seguito. A questo punto il Valoroso era in testa al gruppo e da qua sotto due repubblicani armati di mitra hanno lanciato una raffica. Il Valoroso è stato colpito in pieno, secondo Mazzoni, Bigi era il terzo (niente), il quarto ero io (niente).

La battaglia termina alle 10:50, sono passate quasi 7 ore di ininterrotti combattimenti. Sul campo restano morti e feriti che i Partigiani cominciano a raccogliere. Il comando fascista chiede una tregua di 48 ore, che viene concessa, e in quel momento i Partigiani consegnano ai nemici 56 corpi senza vita. Le autorità della Repubblica Sociale Italiana ammettono le perdite. Tra morti, feriti, prigionieri e assenti alle forze della RSI mancano 224 uomini, quasi il 50% delle forze impiegate nell’attacco. Fra gli uomini di Vescovi dopo la morte del loro comandante serpeggia la rabbia. Alcuni prigionieri vengono brutalmente malmenati.

Il Valoroso, avendo sentito che in una stanza a fianco di quella nella quale lui qui stava ovviamente agonizzando, aveva sentito che i Partigiani, anche per vendicarlo, stavano prendendosela sul serio con dei prigionieri. E lui morente chiamò nella sua stanza alcuni di questi suoi uomini e disse loro queste parole, pochi minuti prima di morire: “Amici. Siate onesti patrioti. Curate i feriti. Non maltrattate i prigionieri. Perdonate gli italiani che non la pensano come noi. Siate sempre compatti. Viva l’Italia!

A Lino Vescovi, per il suo atto di coraggio, verrà conferita la medaglia d’argento al valore militare. A Lino Vescovi sono anche intitolate due vie: una a Monticelli d’Ongina ed una a Piacenza. Diversi corpi dei Combattenti morti vengono trovati dopo, fra l’erba alta o in punti nascosti. Sono terrificanti i morti sfigurati. C’è chi è stato investito dal fuoco e ha il ventre squarciato. Un soldato ferito ha la spina dorsale spezzata. I civili, perenne ostaggio delle forze nazifasciste, si aggirano fra i corpi dei morti. Fra loro ci sono sfollati, gente che ha perso la casa, gente che ha fame. Spesso si toglie, ai soldati morti, qualcosa che a loro non serve più, ma può servire ai vivi. Ai soldati ad esempio, si tolgono gli scarponi; possono essere scambiati con della farina, in un’economia in cui manca ormai tutto e per avere qualcosa si ricorre al baratto.

Se non ci fossero stati loro i nostri Montanari, a volerci bene, aiutarci, a darci da mangiare, a sfamarci, a darci un letto, una camicia se era necessario, saremmo stati annientati completamente durante il rastrellamento.

Gente che ci voleva bene, gente che ci ha aiutato!

Non avevano niente poverini perché erano proprio i più poveri dei poveri, eppure, se facevano delle polente allora se ce le davano, insomma ci davano quello che avevano, ecco. No no, ci hanno aiutato molto.

Diversi contadini erano stati costretti dalle truppe della RSI a portare i buoi per trainare le armi pesanti da piazzare sulle alture, rischiando più volte la vita. Molti rimarrano scioccati dalla paura e dal triste spettacolo, una volta cessate le armi. I frutti della Battaglia e di quella Vittoria si raccolgono altrove.

È depresso l’umore delle truppe della RSI, viceversa, l’eco della Vittoria partigiana si rincorre lungo le vallate piacentine, infondendo morale in vista dell’ultimo sforzo.

Il 20 aprile, siamo a 4 giorni dopo la vittoria di Monticello, i reparti delle SS italiane e delle Brigate Nere impiegati in quella zona, si ritirano. L’attacco decisivo per la liberazione di Piacenza avviene tra il 27 e il 28 aprile. I tedeschi riescono a fuggire attraversando fortunosamente il Po. Gli alleati fanno entrare in città, per primi, i Partigiani. Ci sono ancora i Franchi tiratori da snidare e si sostengono combattimenti casa per casa. Soltanto nel centro cittadino, alla vigilia della Liberazione, sono ancora distanza 150 uomini delle SS naziste e circa un migliaio di effettivi della RSI, divisi tra corpi diversi.

Anche negli ultimi giorni, quando la guerra sembra finita e vinta, i Partigiani piacentini combattono lasciando sul terreno altri Caduti. Piacenza resterà una zona tra quelle militarmente più attive nello schieramento partigiano, riconosciuta dalla storiografia e dalle testimonianze degli Ufficiali alleati. Sin dai primi anni del dopoguerra, gli alleati hanno riconosciuto a Piacenza un merito particolare perché in questa zona dicono vennero affidati ai Partigiani compiti superiori a quelli attribuiti a qualsiasi altra formazione partigiana, in tutta la Campagna d’Italia.


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